Con l’accelerazione delle iniziative di digitalizzazione da parte delle aziende, soprattutto a partire dall’inizio della pandemia, lo skill mismatch è diventato un problema sempre più evidente, che non solo impedisce a tante persone di trovare lavoro, ma che danneggia anche lo sviluppo dell’economia del nostro Paese. Lo skill mismatch, infatti, è un disallineamento tra le competenze cercate dai datori di lavoro e le competenze possedute dai lavoratori: in poche parole, i posti di lavoro ci sono, ma mancano le persone adatte per i ruoli che le aziende stanno cercando.
Questo problema non è sicuramente nuovo e si stima che a livello globale riguardi 1,3 miliardi di persone, ma si è accentuato in questi ultimi due anni di pandemia.
Secondo l’Agenzia Nazionale per le Politiche del Lavoro (Anpal), infatti, con la pandemia lo skill mismatch è cresciuto: 4 aziende su 10 non riescono a trovare il lavoratore giusto da assumere. Inoltre, la crescita di questo fenomeno ha anche creato dei danni economici a livello globale, peggiorando potenzialmente le perdite di produttività dal 6% all’11% e causando un Pil non realizzato pari a 18 trilioni di dollari entro il 2025.
Per affrontare il problema bisogna puntare su formazione e orientamento
All'origine dello skill mismatch c’è sicuramente la grande trasformazione digitale che tutti stiamo vivendo. I ritmi produttivi cambiano, molte attività ripetitive possono essere automatizzate e il progresso tecnologico avanza a ritmi sempre più serrati: oggi, per stare al passo con il cambiamento, le aziende cercano competenze e profili che solo fino a qualche anno fa non esistevano nemmeno. Secondo l’Institute for the Future, questo trend è destinato a continuare e l’85% dei lavori che saranno richiesti nel 2030 oggi non esiste. È difficile fare previsioni sul futuro, ma un’ipotesi di questo tipo restituisce sicuramente la misura della velocità a cui si sta evolvendo il mercato del lavoro, una velocità che non si accompagna a quella a cui si evolve il sistema educativo.
Purtroppo l’Italia risulta ancora indietro rispetto alla media europea non solo per numero totale di laureati, ma anche per quanto riguarda il numero di laureati in materie STEM, i più ricercati attualmente da parte delle aziende. Secondo il Digital Economy and Society Index (DESI), che monitora la competitività digitale degli Stati membri dell’Unione europea, l'Italia è al 17esimo posto per laureati in materie STEM (Science, Technology, Engineering, Mathematics) e 21esima per competenze digitali. Inoltre, secondo lo stesso indice, solo l’1,3% dei laureati italiani sceglie materie ICT, ambito in cui, grazie all’accelerazione dell’innovazione tecnologica, ci sono invece molte richieste da parte del mondo delle imprese.
I dati raccolti dall’Istat, infatti, mostrano come proprio il settore dei servizi ICT sia uno di quelli in cui le aziende fanno più fatica a trovare le persone adatte alle posizioni da ricoprire, lasciando vacanti ben il 2,2% dei posti disponibili.
Una dimensione importante del problema è certamente legata all'orientamento: spesso gli studenti fanno fatica a trovare informazioni complete sulle carriere lavorative legate a ciascun percorso di diploma o laurea e questa mancanza di chiarezza, di conseguenza, influenza la scelta del percorso formativo da intraprendere, che penalizza proprio gli ambiti ICT e tecnico-scientifici. Nel 2020, proprio in questo settore, è risultato particolarmente evidente il divario tra l’Italia e le principali economie europee: meno del 40% dei lavoratori italiani possiede un titolo di studio universitario (contro il 66% dell'UE) e, mentre il numero degli specialisti è aumentato di circa il 77% in Francia, del 50% in Germania e del 35% in Spagna nei dieci anni dal 2010 al 2020, in Italia è cresciuto solo del 18%.
Per risolvere questo problema serve una stretta collaborazione tra mondo della formazione e mondo delle imprese, senza fermarsi alle generazioni più giovani, perché non bisogna dimenticare che lo skill mismatch colpisce lavoratori che sono già inseriti nel mercato del lavoro da diversi anni. Sempre secondo l’indice DESI, infatti, solo il 42% delle persone di età compresa tra i 16 e i 74 anni possiede le competenze digitali di base mentre la media europea è di 56% e solo il 22% dispone di competenze digitali superiori a quelle di base.
Il problema, quindi, è molto più grave di qualche risultato negativo all’interno di statistiche internazionali: questi numeri, se non vengono adottate delle azioni correttive adeguate e iniziative di formazione dedicate anche a chi si trova già sul mercato del lavoro, rischiano di tradursi nell'esclusione digitale di una parte significativa della popolazione e di limitare la capacità di innovazione delle imprese.